A due anni di distanza dall’ultima volta, Stefano Perna torna a parlare di calcio (giovanile ma non solo) ai microfoni di Football Scouting. Autore di tre libri, formatore e fondatore di The Scouting App, con il direttore sportivo di scuola iberica abbiamo affrontato diversi temi. Dal progetto mai decollato delle squadre B alle differenza tra Italia e Spagna, passando per il mondo scouting: ecco le sue dichiarazioni.

Stefano Perna: le differenza tra Italia e Spagna

Ciao Stefano, bentornato! Partirei con l’argomento della settimana: un’Italia di Mancini che sembra non ingranare più come prima e con un tasso tecnico che non fa ben sperare per il futuro prossimo. Mancano giovani di talento, manca fiducia in questi giovani o cos’altro?

Su questo ho un’idea ben precisa. Il problema non è la mancanza di giovani, né tantomeno un Mancini che va a pescare calciatori in giro per il mondo. Fondamentalmente credo che l’errore sia a monte: nei club oggi mancano dei professionisti che possano lavorare a tempo pieno per formare i calciatori. Non è normale che un uomo la mattina magari fa il lattaio e la sera va al campo ad allenare i ragazzi. Parliamo di persone non preparate, spesso neanche pagate per ricoprire questi ruoli. Manca un progetto, manca una struttura che funzioni a dovere. Il calcio italiano purtroppo è rimasto ad un livello medio di improvvisazione che trent’anni fa andava ancora bene, ma oggi, se messo in relazione con altri sistemi, non basta più. E probabilmente non abbiamo ancora toccato il fondo…

In Spagna invece le cose vanno un po’ meglio, anche se la media età dei calciatori, se si guarda alla Nazionale, è comunque abbastanza alta.

C’è da dire che il calcio spagnolo sta vivendo un momento di flessione, un cambio generazionale che ha portato anche loro ad avere qualche problema in alcune zone del campo. Penso a Joselu, centravanti dell’Espanyol che ha debuttato con la Nazionale a 32 anni la scorsa settimana, segnando una doppietta. Diciamo che di calciatori giovani di buone prospettive ce ne sono, ma non tutti diventeranno campioni a differenza dei loro predecessori. Questa fase di rodaggio però, che secondo me durerà una decina d’anni, non è certo dovuta ad una mancanza di idee, strutture o regole.

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A proposito: c’è qualcosa che potremmo copiare da loro per provare a migliorare?

La prima cosa che mi viene in mente è che i giovani in Spagna hanno più spazio di manovra, hanno meno vincoli rispetto ai club e sono più liberi di girare e andare a giocare dove vogliono per crescere. In Italia invece succede che anche la scuola calcio di quartiere non ti dà il nulla osta e rischi di rimanere bloccato. Che poi, sembrerà paradossale, ma qui in Spagna tanti professionisti invidiano proprio questo sistema, che in effetti da molto più potere ai club ma che, nei fatti, rischia di rovinare il percorso di troppi giovani.

Rimanendo in tema Nazionale iberica, secondo te quali altri giovani potrebbero emergere nei prossimi anni?

Ti faccio due nomi su cui punto tanto. Il primo è Gabri Vega del Celta Vigo, che reputo un giocatore importante, secondo me già pronto, da qui a fine anno, al grande salto in una big. Ti dirò: contavo molto sul fatto che in Italia qualcuno, tramite un buon lavoro di scouting, lo scoprisse con anticipo e lo portasse a casa facendo il colpaccio, e invece no. Il secondo nome è quello di un calciatore che seguo con piacere da un po’ di anni: Arnau Martinez del Girona. Mi sbilancio e ti dico che ad oggi è forse quanto di più vicino ad un eventuale erede di Puyol.

Ds Stefano Perna

Stefano Perna: tra scouting e progetto (fallimentare) delle squadre B

Restando sul tema proposte per il calcio italiano: nella nostra precedente chiacchierata avevamo parlato di squadre B e di come questo progetto in Italia stentasse a decollare. Ebbene da allora, Juventus a parte, sembra definitivamente tramontato. Perché non ci abbiamo creduto?

Il progetto delle squadre B non mi ha mai convinto del tutto. Partiamo dai costi. Per farti un esempio, all’epoca per fondare una squadra B bisognava investire circa tre milioni di euro. Nello stesso periodo i proprietari del Napoli rilevarono il Bari per centocinquanta mila euro, e quello è stato un modo per formare comunque del calciatori da poter poi utilizzare in prima squadra o, nel peggiore dei casi, da vendere per portare a casa delle buone plusvalenze. Hai citato la Juventus: in questi mesi diversi elementi della formazione Next Gen stanno effettivamente trovando spazio tra i big, ma a dirla tutta l’unico vero predestinato sembra Nicolò Fagioli, che a sua volta ha fatto comunque prima un’esperienza fuori dal mondo bianconero per poter emergere. Questo per dirti che, a livello formativo, secondo me si rischia di chiudersi in una zona di comfort, di vivere un appiattamento sia  motivazionale che di crescita. Dopotutto la squadra B è un ambiente un po’ ovattato. Secondo me la vera forza del calciatore si vede con l’esperienza all’esterno, altrimenti non puoi valutarlo a 360°.

Hai detto Napoli e ho pensato subito a Kvaratskhelia. In ottica scouting, ha senso fare un lavoro di scavo anche in quei Paesi dove non c’è una grande tradizione calcistica o quello del giocatore azzurro è stato un caso isolato?

Innanzitutto Kvara non è l’unico calciatore georgiano emerso nell’ultimo periodo. Mi viene in mente, ad esempio, Giorgi Chakvetadze, preso dal Gent lo scorso anno, oppure Giorgi Mamardashvili, arrivato al Valencia due estati fa. Lo stesso fenomeno del Napoli, se ci pensi, ha fatto tappa intermedia al Rubin Kazan. Insomma, in questi anni c’erano stati segnali importanti dal calcio georgiano, quindi per società con sistemi di scouting eccellenti – come quella azzurra – non è stata una vera e propria sorpresa. Certo, sono stati bravi a cogliere l’occasione giusta.

Quindi in effetti lo scouting sta cambiando, oggi si guarda a tanti nuovi mercati.

Sì, senza dubbio rispetto al passato non ci sono più quelle visioni limitate per cui il possibile crack può arrivare solo dal calcio argentino. Molto però, quando si guarda a questi mercati giovani, dipende sempre dalla giusta capacità di valutazione di un calciatore da parte di chi si occupa di seguirlo. Un atleta magari nel suo contesto fa la differenza ma la sua qualità deve essere pensata in relazione al contributo che può dare in un calcio diverso, più strutturato. Qui sta la vera difficoltà. Il fatto che poi il mondo dello scouting oggi sia inflazionato da numeri, strumenti tecnologici, algoritmi, certamente non aiuta. Insomma, è un discorso complesso: i dati oggettivi, per quanto utili, non bastano per valutare un giocatore.

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A proposito di scouting, quando ci siamo sentiti l’ultima volta avevi scritto due libri, nel frattempo ne è arrivato un terzo. Di cosa tratta?

Sì, il Tao del pallone, che tra l’altro ha da poco compiuto un anno, tratta sostanzialmente due tematiche. La prima riguarda il lavoro di coaching, fondamentale per chi vuole avvicinarsi a questo mondo, e la seconda guarda al dopo, ad una serie di consigli e nozioni utili per chi vuole crearsi una chance reale a livello professionale.

Chiuderei con una domanda di rito. Che consiglio vuoi dare ai giovani che si stanno avvicinando per la prima volta a questo mondo?

La chiave è formarsi. Formarsi però non andando a rincorrere il nome grosso ma capire chi davvero è in grado di dare degli input, degli strumenti utili a valutare la qualità e la possibile crescita di un calciatore. Oggi purtroppo, anche a livello federale, ci sono tanti corsi strutturati male, dove si confonde l’analisi tattica con lo scouting puro e questo crea confusione in chi poi si ritrova a dover fare una scala di valori del singolo, in relazione al contesto o ad un possibile percorso da futuro professionista. Chiaramente viaggiare, conoscere i diversi mondi calcistici, fare esperienza sul campo, aiuta non poco, soprattutto nell’ottica di creare un proprio stile e dei propri criteri valutativi. Insomma, bisogna essere autonomi ma al tempo stesso bravi a cogliere le opportunità, affidandosi alle persone giuste.

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