Qualche mese fa, in contemporanea con la controversa eliminazione dalla Champions, diversi ambienti dell’informazione napoletana scoprirono, con colpevole ritardo, il cosiddetto “Modello-Athletic”. L’unione tra identità e calcio, il coltivare, fin da piccoli, i potenziali talenti, promuoverli in prima squadra e costruire, attraverso gli anni, quella che sarà la futura rosa titolare. Un modello che, purtroppo per noi, almeno in quel preliminare si rivelò vincente.

Il tutto fu inserito in un più ampio contesto nazionale, con la solita litania, che si presenta dopo ogni disastro mondiale, del “dobbiamo far giocare i giovani”, “dobbiamo puntare sui giovani”. Un’informazione ed un sistema calcio che, non appena si presenta la necessità di un “gattopardiano cambiamento”, è pronta a ripetere la stessa storia del dover puntare sui giocatori cresciuti nel vivaio.

A guardare bene, e benchè questi siano discorsi come detto ciclici, questi appelli cadono sistematicamente nel vuoto. In Serie A, vuoi per convenienza vuoi per mentalità, la percentuale dei giovani che dalla Primavera finiscono in prima squadra è tra le più basse d’Europa. I casi di Insigne, De Rossi, Marchisio o De Sciglio sono più l’eccezione che la regola. Eppure c’è una realtà che sembra rinnegare l’idea del “compro fuori che è meglio”. È l’Atalanta.

L’Atalanta rappresenta una sorta di isola felice per il calcio giovanile. Quasi un unicum nel panorama italiano. Sportiello, Zappacosta, Bellini senza dimenticare Bonaventura e Consigli ceduti appena quest’estate. E gli altri ex Tacchinardi, Pazzini, Montolivo, Zauri, Padoin, Morfeo, Lazzari. Insomma una bella lista di talenti lanciati in Serie A proprio dal club bergamasco.

Atalanta l’Athletic d’Italia?

Questa in verità è una forzatura, per diverse ragioni. Se la cura per il settore giovanile e la propensione di lanciare i migliori talenti in prima squadra è la stessa, ci sono aspetti che rendono la situazione basca molto diversa da quella atalantina.

Innanzitutto a Bergamo manca una vera e propria componente identitaria. Questo se da un lato è uno svantaggio, visto che i giocatori non crescono con la “mentalità basca” in stile-Athletic, dall’altro è anche un grandissimo vantaggio. Il poter contare su un bacino potenzialmente infinito fa si che per l’Atalanta sia certamente più facile trovare un potenziale talento rispetto all’Atheltic che deve necessariamente rispettare vincoli geografici. Data per certa la maniacale cura con il quale sarà cresciuto, la mancanza di un legame identitario con il club può, successivamente, diventare un arma a doppio taglio.

Difficilmente infatti i giocatori che esordiscono con l’Atalanta ritengono il club bergamasco un punto d’arrivo per la loro carriera, ad eccezione di qualche caso isolato, come capitan Bellini. Anzi, la maggior parte diventa, dopo qualche stagione a buon livello, preda dei club più ricchi della Serie A. E’ proprio in questa difficoltà, legata sia alla mancanza di identità che alla minor forza economica, che rende quasi impossibile per l’Atalanta riuscire a trattenere i suoi giovani talenti.

Ciò però, a lungo andare, può anche rivelarsi una risorsa. Le cessioni liberano spazio e portano soldi. Spazio che può essere riempito da un nuovo giovane talento e soldi che possono essere reinvestiti (come accade) su nuovi potenziali giovani campioni.

Un meccanismo talmente ben rodato, e talmente particolare nel contesto italiano da poter dire, senza ombra di dubbio, che quello dell’Atalanta, più che un “Modello-Athletic”, sia un modello originale vero e proprio, con le sue peculiarità. Un modello sia calcistico che di business, che ha permesso al club bergamasco di essere considerata la “regina delle provinciali” per via del fatto che, nonostante non sia capoluogo di regione, ha trascorso la maggior parte della sua storia in massima serie. Lo splendido centro di Zingonia, appena rinnovato, il convitto “Casa Atalanta” al centro di Bergamo e la continuità gestionale del “mago” Mino Favini sono i fattori su cui si costruisce la favola nerazzurra.

E il Napoli?

E il Napoli è paurosamente indietro. La mosca bianca Insigne è l’unico napoletano (e campano) in rosa, nonché unico, dopo Vitale, ad essere riuscito nell’impresa di passare dalla Scugnizzeria alla prima squadra e di rimanerci in pianta stabile nei dieci anni di era De Laurentiis. Un Insigne che, nonostante abbia ricevuto spesso e volentieri attestati di stima e fiducia da un tecnico di altissimo livello come Benitez, è molte volte bersaglio della stampa e della tifoseria. Quasi come se essere napoletano più che un bonus fosse una spada di Damocle pronta a crollare sulla testa.

Un vero peccato considerando che, storicamente, il Napoli ha sempre sfornato grandi talenti dal settore giovanile. Fabio Cannavaro, Ferrara, Bruscolotti, Juliano, ma anche Volpecina, Caffarelli, Musella e tanti altri. Un trend che, paradossalmente, sembra essersi arrestato in concomitanza con la “rinascita” del post-fallimento.

Ed analizzando meglio la situazione i rimpianti aumentano. Si perché a Napoli, a differenza di Bergamo, potrebbero esserci due importantissimi fattori in grado di far aumentare l’utilità di investimenti sul settore giovanile. Il primo fattore è quello identitario. Napoli non è certo ai livelli di Bilbao, ma quello con la magia azzurra è un legame molto sentito in città. La napoletanità non sarà come l’essere baschi, ma è comunque un potenziale ed importante sentimento di aggregazione. Altro fattore è il prestigio del Napoli. Anche qui non siamo ai livelli di Barcellona o Real, e, diciamoci la verità, nemmeno di Juve  e Milan, ma la piazza azzurra ha il suo fascino. E trattenere un giovane talento a Napoli è certamente più facile (anche dal punto di vista economico) che trattenerlo a Bergamo.

Insomma, purtroppo, ancora una volta, ci tocca guardare in casa d’altri. Con il rammarico che quello che fanno a Bergamo forse potrebbe essere fatto, con molti più vantaggi e risultati migliori, anche a Napoli. ma mancare, come sempre, più cha la possibilità, sembra essere la volontà di farlo.

 

Fonte: Giancarlo Di Stadio – iamnaples.it