di Marco Borri (Osservatore Abilitato F.I.G.C. – Ex: A.S. Varese 1910, U.C. AlbinoLeffe; attuale Responsabile Scouting Settore Giovanile Milano e Prov)

In questo articolo cercherò di rispondere al quesito di molti che si avvicinano allo scouting dei calciatori: per fare l’osservatore è necessario aver giocato a calcio, magari ad alto livello?

Sfrutterò argomentazioni e spunti tratti dai miei libri: “L’osservatore calcistico a 360°” e il “Manuale del talent scout nel calcio”(Calzetti&Mariucci 2014 e 2017), e dal “Manuale per l’osservatore calcistico” di M. Zunino (Hoepli 2015), nella speranza di poter fornire una risposta esaustiva, il mio punto di vista, a tutti i lettori.

Il bravo talent scout (chi rivela notevole intuito nell’individuare in persone “sconosciute” capacità e qualità non comuni), è quello che sbaglia meno. Il professionista dispone di tutti gli strumenti necessari per poterlo fare ma, nel contempo, nonostante lo ritenga un “tuttologo” del calcio (vedi articolo footballscout24.it del 06/06/17), non si può sostituire alle competenze specifiche di tutte le figure professionali che, con il loro lavoro, contribuiscono alla formazione, al miglioramento e al mantenimento della performance del calciatore (allenatori, preparatori atletici, medici, psicologi, ecc).

Nel complesso lavoro di ricerca, selezione e promozione del talento, è necessaria sinergia tra tutte le figure professionali che ruotano intorno agli atleti. Nei settori giovanili l’ideale sarebbe anche quello di poter beneficiare dell’apporto delle famiglie.

L’impegnativo lavoro di identificazione, monitoraggio e costruzione non può essere frutto solo della casualità o dell’improvvisazione, come a volte ancora accade.

Ricordo che il cosiddetto talento, in particolare nei giovani, è spesso nascosto, latente, evidente solo nella prospettiva. Diviene così necessario saper leggere la prospettiva di un giocatore, ovvero: proiettare la realtà osservata nel breve, medio o lungo periodo riuscendo a definire, nel limite del possibile, la reale caratura e categoria (M. Borri).

Sono richieste preparazione (la F.I.G.C. dal 2015 forma e abilita osservatori per operare, in Italia, nel calcio professionistico e a tempo pieno), esperienza ma serve anche talento da parte di chi osserva. Lo scout deve disporre del “fattore x”, di quell’istinto naturale che fa scattare la scintilla, “l’intuizione epidermica”, che per un’indefinibile sensazione, sommata alle competenze e all’esperienza, gli consente di fare la giusta scelta e la differenza (si tratta di un’attitudine innata a prescindere dall’aver giocato a calcio e dal livello). Fidarsi dell’istinto non è un metodo, ma può risultare efficace soprattutto con i giovani: “non sottovalutare mai il calciatore che a livello emotivo lascia qualche cosa”.

Lo scout osserva, non guarda; guardare è un’azione passiva, da spettatore, mentre osservare è al contrario un’azione attiva con un preciso obiettivo nel suo intento legato ad un processo cognitivo. L’osservatore, quindi, deve essere in grado di valutare e riconoscere il maggior numero di aspetti del calciatore. Morfologici, condizionali, coordinativi, tecnici, tattici, psicologico – comportamentali, personali (umani).

Per fare questo quindi, oltre al talento, “basta” prepararsi o è necessario aver giocato a calcio e magari ad alto livello?

E’ curiosa una “regola” non scritta della professione (riportata nel libro di M. Zunino) che sostanzialmente recita: non mandare mai un ex portiere ad osservare un portiere, un ex difensore ad osservare un difensore, un ex attaccante un attaccante e un ex centrocampista un centrocampista. Ipotizzando di prenderla per buona il portiere, a mio avviso, è certamente l’eccezione.

Alcuni sostengono che, se si ha giocato nello stesso ruolo, tale “regola” tenderebbe a sminuire o esaltare troppo le qualità dell’atleta osservato a seconda della categoria dove ha giocato lo scout e dove gioca il calciatore osservato. Per esempio: se lo scout ha giocato in Serie C e in serie B, al cospetto di un “collega” che sta giocando una competizione europea, potrebbe rischiare di incappare in timori reverenziali venendo in un certo senso condizionato nell’esprimere una valutazione negativa enfatizzandone invece le qualità; oppure ancora, in caso di parità di categoria tra osservatore e osservato, potrebbe rischiare di essere troppo critico perdendo di vista le reali potenzialità dell’atleta in esame.

In linea generale l’osservatore preparato, qualificato, è in grado di mettere al servizio della società per la quale lavora la sua competenza e professionalità, senza falsare ciò che osserva indipendentemente dal proprio vissuto.

Nel caso specifico però della valutazione di un portiere, ritengo utile l’aver “indossato i guanti” a prescindere dalla categoria. In particolare è possibile comprendere meglio e più rapidamente le sfumature psicologico – emotive del ruolo. Per assurdo: è un po’ come visitare Napoli con una guida qualificata ed esperta del territorio, sicuramente in grado di descrivere ed esporre la bellezza e la storia della città, ma certamente il Napoletano nativo, che vive la città da sempre (la porta), ne conosce i profumi, i colori, e può mostrare scorci per altri più difficili da cogliere nell’immediato. Il ruolo del portiere per certi versi è “uno sport nello sport”. Detto ciò si impara a valutarlo ma, a mio parere, è necessario dedicarsi maggiormente e confrontarsi con uno scout specifico e/o un allenatore di portieri. I grandi club, anche a livello giovanile, dispongono dell’osservatore specifico dei portieri che, guarda caso, è un ex estremo difensore.

In linea generale, aver giocato a calcio è sicuramente d’aiuto per esercitare la professione. Inoltre è innegabile che tutti gli scout che hanno calcato campi importanti possono beneficiare dalla loro esperienza. Potenzialmente riescono a cogliere, con maggior facilità, tutti gli aspetti del calciatore con particolare riferimento a quelli emotivi-caratteriali, immedesimandosi meglio nelle diverse situazioni dell’osservato.

E’ altrettanto vero però che l’osservatore moderno, lavorando per vere e proprie aziende, oltre a saper osservare deve conoscere il mondo del lavoro e sapersi muovere al suo interno. Caratteristiche che, molto spesso, non sono proprie dell’ex calciatore di alto livello che fino a 30/35 anni si è guadagnato lo stipendio indossando gli scarpini. E’ fisiologico che, come colui che non ha giocato a calcio, possa mostrare delle lacune (colmabili) in questo senso.

Poter attingere quindi da esperienze aziendali extracalcistiche, ancor meglio se commerciali, è agevolante; non solo per gli osservatori, ma in tutti i ruoli di responsabilità, organizzativi e gestionali del calcio sapersi relazionare, lavorare in team, avere un metodo di lavoro efficace e condiviso (tipico delle aziende ben strutturate), saper stimolare, gratificare i propri colleghi/collaboratori, è fondamentale per la crescita personale, di gruppo e il raggiungimento degli obiettivi.

In definitiva, sulla base delle argomentazioni riportate, l’aver giocato a calcio anche ad alto livello non è una prerogativa assoluta per chi vuole fare l’osservatore calcistico.

La storia insegna che molti scout non hanno quasi mai giocato ad alti livelli (anche grandi allenatori come per esempio Arrigo Sacchi). Probabilmente anche perché fino a prima del 2015 (primo corso F.I.G.C.), il ruolo dell’osservatore era ancora bistrattato, senza un riconoscimento ufficiale. Gli ex calciatori fino a qualche tempo fa preferivano, infatti, investire in ruoli ufficiali e maggiormente remunerativi … oggi si intravede un cambio di tendenza.

Nell’ambiente vige ancore il detto comune: “il miglior osservatore è quello con i soldi”, ma certamente una miglioria c’è stata. Grazie alla Federazione l’osservatore è un professionista riconosciuto e penso ci si dirigerà sempre più verso una specificità, una professionalità, con tutto quello che ne può derivare.  Similmente a quanto è accaduto per altre figure, come allenatori, preparatori atletici, direttori sportivi ecc.

Per diventare bravi, come in ogni professione, le competenze e i requisiti sono tanti e le esperienze e i percorsi di ognuno sono spesso differenti. Per esempio mio zio Paolo Piazza (classe 1914), mi hanno sempre raccontato in famiglia, è stato un’abile talent scout del Milan nei primi anni ’50. Non aveva mai giocato a calcio e camminava col bastone, perché da piccolo si era ammalato di polio.

Il mondo degli osservatori è aperto a tutti. In relazione ai trascorsi e alle attitudini di ognuno bisognerebbe cercare di valorizzare i propri punti di forza, migliorare quelli deboli, mettendosi alla prova sul campo; dietro la recinzione, davanti a un monitor o seduti in tribuna … dove, alla fine, stiamo tutti.

Fonte: Footballscout24.it